A Gualdera conviene lasciare l'auto, anche se la strada prosegue ancora per un tratto. Si prosegue lungo la sterrata che, dopo aver guadagnato quota con alcuni tornanti, raggiunge il piccolo nucleo di Bondeno costituito da tre successivi gruppi di baite. Oltre le case si percorre ancora per un breve tratto la strada, poi la si abbandona per deviare verso destra seguendo il sentiero segnalato fra pascolo e rado bosco di larici e abeti. Una agevole salita conduce, infine, al vasto poggio prativo del Motto di Bondeno che si sporge sulla sottostante Val San Giacomo. Sulle numerose rocce affioranti che costellano il prato, poco prima che il sentiero inizi ad addentrarsi nella Val d'Avero, si possono osservare varie incisioni rupestri alcune delle quali antichissime. Dal Motto di Bondeno, si riprende il sentiero che s'addentra nella Val d'Avero, intagliato nel suo versante destro orografico (cartello indicatore). In circa trenta minuti di agevole cammino in leggera discesa, superata una zona di detriti alluvionali, si giunge all'abitato di Avero 1678 m, peraltro già da tempo ben visibile al centro della valle omonima. Varcato, da ultimo, un torrentello si entra nel paese che merita una breve visita. Il sentiero prosegue ora sempre a mezza costa percorrendo un bel bosco d'abeti, per raggiungere la soglia opposta della Val d'Avero presso le baite del Motto 1670 m (da Avero si può interrompere la gita scendendo sulla SS36 dello Spluga che si raggiunge all'altezza del paesino di Cimaganda).
Poco sotto il sentiero, in un prato sospeso su altissime pareti a picco, sorge la baita ormai diruta della Motta Secca. Si tratta di un luogo magico e ricco di fascino che, se avrete voglia, potrete raggiungere in pochi minuti. Ripreso il sentiero si inizia ora la parte forse più suggestiva del percorso che si snoda fra le rupi a picco e i valloni scoscesi della Val Zerta. Questo tratto richiede una certa prudenza anche se il tracciato è sempre molto buono. Un piede in fallo potrebbe portare a gravi conseguenze, per cui si raccomanda attenzione. In questo ambiente fantastico di pareti e spaccature, di gole e rada vegetazione aggrappata alle asperità più incredibili traversiamo la minuscola Val Zerta sbucando, infine, sull'inaspettata oasi prativa dell'Alpe Olcera 1513 m. Anche questo alpeggio si trova in un luogo particolarmente significativo, accoccolato in una stretta lista di prati che forma quasi una culla, fra le rupi che piombano sulla Val San Giacomo e le ripide pendici del Piz Alto. Varcato un torrente su un ponte si prosegue scendendo alle baite di Casinaccia e poi giù, ancora fra roccioni e aspre pareti, fino a rientrare in un magnifico bosco ove il sentiero torna a farsi pianeggiante. Si continua con percorso agevole e ben marcato ancora per diversi minuti finché si giunge sui vasti prati del poggio ove sorge il piccolo borgo di Dalò 1108 m, di cui abbiamo recentemente parlato. Qui è possibile prendere il tratturo che scende verso destra (Ovest) e riporta in Val San Giacomo, a Uggia e poi a S. Giacomo Filippo. In alternativa si può imboccare la bella mulattiera che parte un centinaio di metri a monte della grande croce ben visibile a Sud del paese e, con molti tornanti, scende fino a Pianazzola, grossa frazione soprastante Chiavenna.
Gualdera, 1453 m, è un piccolo nucleo di case raggiungibile staccandosi, a destra, dalla SS 36 dello Spluga all'altezza di Campodolcino 1066 m, per imboccare la strada che percorre la Val Rabbiosa alla volta di Fraciscio. Campodolcino, località turistica della Val San Giacomo, si trova sulla SS 36 dello Spluga a 14 km da Chiavenna e 129 da Milano. Da qui si imbocca la deviazione per Fraciscio che si segue per circa 1.5 km, fino all'altezza del bivio da dove, piegando a destra, si arriva a Gualdera e Bondeno.
E' opportuno poter disporre di due auto. La prima deve essere lasciata a Gualdera, punto di partenza della gita, la seconda può essere lasciata all'imbocco della Val San Giacomo (a Uggia o a San Giacomo Filippo) ,oppure può essere parcheggiata a Pianazzola.
La ricerca dei segni del passato umano sulle Alpi è estremamente appassionante e, spesso, ci apre orizzonti inaspettati facendoci scoprire quanto diversa fosse la visione del territorio e degli spostamenti che avevano i nostri avi.
Ma questa ricerca è difficile e porta, a volte, ad interpretazioni errate. Se la si vuole fare correttamente, occorre per prima cosa mettere in conto ore e ore di cammino in località spesso abbandonate e impervie, con esiti sempre incerti. Non basta, infatti, trovare una concavità su un sasso per dire che questa è una coppella: una corretta valutazione del reperto non può prescindere da una serie di elementi che richiedono, quanto meno, un'infarinatura in varie discipline. Sarebbe perciò utile sapere un po' di geologia, qualcosa di climatologia, di simbologia, di topografia, di storia locale e di strategie dello spostamento nomade. In più è impossibile slegare l'eventuale ritrovamento dal contesto geomorfologico dell'ambiente circostante e dall' importanza che ad esso si annetteva in altri tempi. Dunque anche la fantasia è necessaria, per potersi spogliare delle moderne concezioni legate al viaggio, e cercare di mettersi nei panni di un nostro avo. La fantasia gioca, però, anche brutti scherzi e per questo bisogna sempre essere critici sia con se stessi, sia con i compagni di ricerca.
Molto spesso quelle che sembrano coppelle o incisioni lineari, altro non sono che normalissimi effetti dell'erosione e di particolari tessiture della roccia. Dobbiamo ricordare che una matrice rocciosa può contenere lenti di minerali più sensibili agli effetti della disgregazione eolica e meteorica, e proprio in questi punti può innescarsi un lento processo di erosione che crea, in superficie, concavità più o meno cospicue.
Tenete inoltre presente che coppelle e incisioni ornano quasi sempre rocce pianeggianti e lisce o, comunque, facilmente lavorabili. In genere tali rocce si trovano in quelli che chiamerei "luoghi significativi", luoghi cioè che rispettano certe costanti legate a concezioni di viabilità e d'insediamento antichissimi.
Conclusa questa sommaria analisi possiamo ora soffermarci sui vari significati che gli studiosi danno alle coppelle.
Per prima cosa si deve sgombrare il campo dalla credenza che tali segni siano solo di origine preistorica: essi, come tanti altri (ad es. le croci), abbracciano un arco temporale che si spinge fino al tardo Medioevo. E', dunque, verosimile che il significato attribuito da un uomo preistorico alle coppelle fosse alquanto diverso da quello dato ad esse da un uomo del medioevo.
Comunque sia, in funzione della loro configurazione (isolate, allineate, collegate da canali incisi, raggruppate a formare i vertici di un disegno geometrico, circondate da una corona di coppelline o iscritte in un cerchio) il significato delle coppelle appare diverso. Senza dubbio il più antico e credibile significato è quello collegato al rito della fertilità, della vita e della rinascita della Natura, poi affinatosi, sfociando nella venerazione della Grande Madre.
La coppa rappresenta, inoltre, anche l'emisfero inferiore, in altre parole terreno, dell'Uovo Cosmico; del resto il suo opposto, e cioè la cupola, è sovente utilizzato nell'architettura sacra per indicare le sfere celesti.
E' non è azzardato pensare che da questi atavici simboli si sia evoluta anche la simbologia legata alla coppa sacra o Graal, tipica della cultura celtica: torniamo al concetto di coppa della vita" sopra esposto.
Coppelle iscritte dentro uno o più cerchi concentrici, o a file circolari di coppelle più piccole, sono con buona probabilità simboli cosmici legati alla venerazione del sole. Forse certi allineamenti o disposizioni geometriche riproducono qualche costellazione o hanno qualche riferimento geografico. In altri casi ci s'imbatte in sistemi di concavità collegati da canali. Anche in questo caso ci possono essere diverse interpretazioni. I sistemi collegati potevano essere il disegno di costellazioni in cui era fatto scorrere un liquido infiammabile creando suggestivi effetti durante le cerimonie sacre; oppure in essi scorreva il sangue di qualche vittima scarificale. In alcuni casi la rappresentazione di costellazioni appare evidentissima.
Dai significati più elevati, attraverso una scala decrescente che passa anche attraverso la semplice simbolizzazione di una "unità" umana (molte coppelle messe ordinatamente su diverse file potrebbero rappresentare i membri di una comunità), si arriva alle coppelle utilizzate come segnavia o come recipienti in cui si accendeva del grasso con scopi divinatori, ma anche di semplice segnalazione a distanza.
Abbiamo accennato, nella presentazione, come lungo una via di comunicazione antica, alcuni punti di sosta, in particolare quelli posti allo snodo di altri percorsi, si siano progressivamente ingranditi fino a diventare piccoli paesi. Del resto è quello che succede tutt'oggi anche sulle le nostre moderne strade.
Sul sentiero che stiamo percorrendo il piccolo paese di Avero costituisce, probabilmente, un esempio del genere anche se le prime notizie ufficiali" del paese risalgono solo al 1271.
Allora Avero non si trovava esattamente dove è oggi, ma era probabilmente più spostato verso Sud; poi, una grande frana travolse le case che nel XVII secolo furono ricostruite nella posizione attuale. L'importanza del paese era accresciuta dal fatto di trovarsi in una posizione da dove si poteva abbandonare il percorso principale per scendere in Val San Giacomo all'altezza dell'odierna Cimaganda. Sicuramente più importante era, però, la possibilità di accedere all'alta Val di Lei attraverso il Passo d'Avero e il Passo di Lei, come pure di entrare in Val d'Avers utilizzando, in successione, i vicini passi d'Avero, del Turbine e della Prasagnola.
Avero, la Val d'Avero, Avers e la Val d'Avers sono toponimi che dimostrano con evidenza un'altra delle componenti del sistema viabilistico antico. Oltre a punti d'orientamento visivi a breve e a lunga distanza (coppelle, rocce, cime, luoghi di culto) la ripetizione di nomi e assonanze costituiva un altro metodo per sapere di essere sulla via giusta. Quando il suono ricorrente dei toponimi cambiava poteva voler dire che si era usciti dall'itinerario prescelto.
I due sistemi, visivo e fonetico, s'integravano e si alternavano, così dopo essere transitati da due o tre luoghi di culto allienati fra loro ed esserci orientati con qualche vetta dai profili inequivocabili, si traversavano località il cui nome rimandava in qualche modo a quello della tappa successiva.
Il paese, abitato solo nella bella stagione, si trova fittamente raggruppato su una leggera dorsale che separa due corsi d'acqua. Gli edifici sono tutti orientati verso valle e disposti con un sapiente uso delle curve di livello. Le costruzioni propongono una grande omogeneità costruttiva, ma v'è distinzione fra le abitazioni, fienili e le stalle.
La casa d'abitazione ha una base in pietra che ospita i locali di lavoro e di conservazione dei prodotti aziendali: cucina, cantina, [cànoa] e casèra, più raramente la stalla, costituiscono questo piano terreno. Sopra di esso si trova il solè" con pavimento e pareti in legno legate col sistema del carden" o blockbau, ancestrale tecnica costruttiva che nelle alpi è tipica delle popolazioni Walser. Il solè" ha funzione di spazio di soggiorno e camera da letto. Poiché Avero era abitato solo nella bella stagione non troviamo all'interno del solè" la tipica stüa che riscalda il locale. Una migliore coibentazione era ottenuta riempiendo gli spazi fra le travi con muschio, mentre il calore veniva dal focolare ospitato al piano inferiore. I tetti sono coperti di grosse piote ricavate dalla pietra locale spaccata in grandi e pesanti lastre.
Questa cura non era, ovviamente, usata per i fienili, pure in legno e per le stalle che, invece, hanno pareti in muratura a secco.
Nei pressi dell'abitato, sui resti di un'antica frana, si trovano poi i caselli, piccole costuzioni in pietra erette sopra sorgenti e utilizzate per la conservazione del latte e di altri prodotti caseari. L'acqua e la presenza di correnti d'aria che escono dagli interstizi delle grandi pietre della frana mantengono costante la temperatura e l'umidità.
La più antica casa di Avero oggi visibile risale al 1628, data incisa su una trave di colmo; un'altra data visibile su una facciata è del 1707. La chiesa, dedicata ai santi Domenico, Camillo de Lellis e Vincenzo de' Paoli, fu costruita nel 1717 e benedetta il 4 agosto 1768. Fu restaurata nel 1986 dopo la caduta di una grande valanga che danneggiò la parte a monte del paese.