La storia spesso si ripete e sovente sembra che l'uomo non riesca ad apprendere dagli errori del passato. La gita che vi proponiamo vi porterà sulla scena di un disastro avvenuto agli inizi del 1900, un disastro provocato dalla superficialità e dal desiderio di ottenere risultati in modo frettoloso.
Il crollo della diga del Gleno ed il relativo disastro avrebbe potuto essere da monito a chi quarant'anni dopo si stava occupando della costruzione del bacino del Vajont, ma così non fu. Sebbene la dinamica delle due catastrofi sia completamente diversa, quello che emerge in ambedue le vicende è una triste serie di omissioni, leggerezze, sottovalutazioni che causarono questi tragici episodi.
Il percorso che raggiunge le vestigia della diga si svolge lungo un buon sentiero abbondantemente segnalato che si snoda in un ambiente boschivo di notevole bellezza, impreziosito dalla gola del torrente, dalle imponenti rupi della valle, dal magnifico vasto Piano del Gleno, tornato in buona parte prativo e dalle grandi vette orobiche del Pizzo Tornello e del Monte Gleno che chiudono la testata della valle.
La gita è adatta a tutti e può essere allungata compiendo la discesa sul paese di Nona, una variante un po' più "avventurosa" e che allunga il cammino, ma, per la bellezza del paesaggio, vale la pena di essere affrontata.
Da Bueggio, una cinquantina di metri dopo il Bar Gleno, si abbandona la carrozzabile per imboccare il sentiero che, verso destra, corre semipianeggiante a monte delle case per entrare poi nella Valle del Gleno e iniziare a risalirne la sponda destra orografica (cartelli indicatori all'inizio del percorso).
Dopo aver lasciato a sinistra la deviazione per Nona da cui ritorneremo, proseguiamo la salita con alcuni tornanti per giungere presso il torrente di fondovalle in una zona di suggestive rocce lisciate dalle acque. Il sentiero riprende poi la salita sempre sulla destra orografica della valle, entrando in un magnifico bosco misto. Ogni tanto la simpatica statua lignea di un animale del bosco ci fa compagnia nel cammino, mentre si lambiscono alcuni osservatori faunistici perfettamente inseriti nell'ambiente.
Uno sguardo verso Sud mostra le oscure pareti della Presolana che chiudono lo sfondo mentre in basso compaiono i parti di Bueggio. In alto, sulla destra, all'inizio del crestone occidentale del Pizzo Pianezza, svetta invece un elegante torrione roccioso ai cui piedi, lo vedremo presto, sorge il grande rudere della diga del Gleno. La salita prosegue agevole e poco faticosa, passando accanto ad una fonte poco oltre la quale si esce dal bosco su aperti pendii erbosi intervallati da roccette. Il tracciato si divide e si può seguire indifferentemente una delle due diramazioni.
Andando a destra (bandierine bianco-rosse) si taglia a mezza costa su rocce lisciate dai ghiacciai del Quaternario ed erbe, passando sul ciglio della sottostante forra (attenzione alle rocce specie se bagnate) e si giunge proprio al centro del grande squarcio della diga, ora occupato da un piccolo sbarramento di cemento che forma un laghetto le cui acque sono usate a fini idroelettrici. Ma paragonato a quello che doveva essere il lago artificiale formato dalla vecchia diga, questo è veramente una nullità. Ai due lati ci sovrastano le grandi strutture in calcestruzzo sopravvissute al crollo e nelle mura si scorgono grandi crepe. Un piccolo monumento ricorda il giorno del crollo, ma in un ambiente tanto bello e pacifico è difficile riandare con la mente a quello che successe oltre ottant'anni or sono. Aggirate alle spalle le arcate del grande muraglione di sinistra, ci si porta sopra di esso per poi scendere per prati sul sentiero di salita, proprio nel punto in cui si trova la diramazione sopra citata. In questo modo si possono avere altre interessanti prospettive sulla diga e sulla vallata.
Il ritorno all'auto può essere compiuto lungo il sentiero di salita oppure passando da Nona. In questo caso dobbiamo imboccare il sentierino che si diparte verso destra poche centinaia di metri a valle della diga.
Appena superata la fonte menzionata descrivendo la salita, il sentiero lambisce un ghiaione e qui si trova la deviazione a destra per Nona (segnaletica un po' sbiadita).
Il tracciato è molto stretto, ma sempre ben visibile e certo. Con un lunghissimo mezzacosta nel bosco, e diversi su e giù, il sentierino traversa la Bellavalle e la Valle di Saline, affluenti da destra in quella del Gleno. Sbucato su una radura, il tracciato prosegue pianeggiante e, poco dopo, esce su un magnifico prato da dove si apre una splendida visuale sulle calcaree pareti del Monte Ferrante, del Pizzo di Petto, del Monte Vigna Vaga e del Monte Barbarossa. Tagliando i prati in discesa diagonale, il sentiero giunge infine su una carrareccia dal fondo in cemento. Si scende lungo la stradina che diventa sterrata e passa per le Baite Esenne; poco dopo eccoci alle porte di Nona che possiamo non raggiungere in quanto a questo punto dobbiamo imboccare sulla sinistra una stradina che s'inoltra quasi pianeggiante lungo un ombroso valloncello.
La discesa ci riporta nel bosco e prosegue su una larga mulattiera lastricata con un grosso acciottolato. Si giunge quindi ad un bivio ove andando a destra si raggiungerebbe il roccolo Pezzolo (cartello escursionistico); noi andiamo a sinistra e, poco dopo, evitando di prendere una allettante diramazione a destra, proseguiamo sulla mulattiera che sale leggermente per poi riabbassarsi e tornare sul sentiero che abbiamo percorso durante la salita. In pochi minuti si giunge all'auto.
Sul finire del 1800, la nascente rivoluzione industriale italiana trovava nello sfruttamento delle acque alpine le risorse energetiche necessarie alle sue esigenze, in sostituzione di quelle fornite dal carbone, materia prima praticamente inesistente nel nostro Paese.
Fra le numerose iniziative in questo senso, si inseriva anche la richiesta di concessione di sfruttamento a fini idroelettrici delle acque del torrente Povo (o Gleno), in località Pian del Gleno, concessione che, passò infine alla Ditta Cotoniera Galeazzo Viganò di Truggio (Milano). Nel 1917, la "Viganò" notificò l'inizio dei lavori sebbene il progetto esecutivo non fosse stato ancora approvato dal Genio Civile. Il progetto esecutivo, a firma dell'Ingegner Giuseppe Gmür, di Bergamo, fu presentato solo nel 1919 e prevedeva la realizzazione di una diga a gravità (sbarramento che si oppone alla spinta dell'acqua grazie al suo peso). Nel 1920 Gmür moriva e la Ditta Viganò assumeva l'Ingegner Santangelo di Palermo: l'anno dopo il progetto fu approvato a lavori già da qualche anno avviati.
Nell'agosto del 1921 l'Ing. Lombardo, del Genio Civile, eseguì un sopralluogo al cantiere constatando con stupore che la diga a gravità, era stato cambiata in corso d'opera in una diga ad archi multipli (struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago). In questo senso la diga era un ibrido rivoluzionario, l'unica al mondo a doppia tipologia costruttiva: ma questa fu anche la causa del disastro che si verificò. Rilevando che le basi delle arcate al centro della diga non erano appoggiate sulla roccia, ma sul tampone a gravità, di cui era già stata costruita la prima parte, il Lombardo diffidò l'impresa dal proseguire i lavori e ingiunse alla Ditta Viganò di presentare un nuovo progetto. Ciò nonostante i lavori andarono avanti alla faccia dei vari sopralluoghi e il nuovo progetto fu presentato solo nei primi mesi del 1923.
Nell'ottobre del 1923, in seguito anche a continue violente piogge, il lago fu riempito, ma subito si verificarono i primi problemi, sotto forma di notevoli perdite d'acqua alla base delle arcate costruite sul tampone a gravità. Il cattivo tempo perdurò anche nella seconda metà di Novembre. Il 1° dicembre 1923, alle 6.30, il guardiano della diga avvertì un "moto sussultorio violento" (In seguito a questa affermazione, durante il processo, la difesa della Ditta Viganò ipotizzò addirittura che vi fosse stata un'esplosione causata da un atto terroristico), era l'avvisaglia del crollo delle dieci arcate centrali della Diga che avvenne alle 7.15. Una valanga d'acqua di circa 6 milioni di metri cubi, iniziò la sua folle corsa verso valle. Incanalata nella stretta gola sottostante, l'acqua prese forza e piombò sul borgo di Bueggio, radendolo al suolo; gonfia di fango e detriti di ogni genere la fiumana entrò poi nella Valle di Scalve, travolgendo Dezzo. Più a valle le strette forre della Val d'Angolo (la bassa Val di Scalve) crearono una serie di dighe temporanee formate dai detriti; queste, una volta ceduto il tappo, amplificarono di molto la portata del disastro. L'ondata raggiunse infine Boario Terme, danneggiando le Ferriere di Voltri e provocando gravi danni alle viabilità. Entrata in Valcamonica, la piena perse via via il suo impeto per smorzarsi definitivamente nelle acque del Lago d'Iseo che crebbe notevolmente riempiendosi di ogni genere di detriti e di molti cadaveri. Le vittime ufficiali del Disastro del Gleno furono circa 360; ma altre stime parlano di 500 morti. Il processo si svolse in tempi molto brevi e il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannò Virgilio Viganò e l'Ing. Santangelo a tre anni e quattro mesi più 7.500 Lire di multa.
Il crollo della diga fu causato essenzialmente dall'imperizia, dall'inesperienza e dalla leggerezza del progettista, oltre che da ragioni economiche. La diga a gravità aveva, infatti, costi maggiori di quella ad archi e quando al Viganò fu proposta la variazione, costui, di fronte ad un consistente risparmio, non ebbe nulla da obiettare. Ma una diga ad archi deve poggiare su solide basi e cioè deve insistere sulla viva roccia; nel caso del Gleno, la parte centrale fu eretta sul tampone a gravità costituito da massi di ripiena e quindi di per sé un supporto potenzialmente instabile. Fu, infatti, tale tampone che funzionò come piano di slittamento della parte sovrastante.
Questa "bestemmia strutturale" fu aggravata da altri importanti fattori: i materiali utilizzati erano di qualità pessima, e le armature quantitativamente insufficienti. Inoltre le maestranze erano pagate a cottimo, fattore che incentivò la loro negligenza: durante i carotaggi eseguiti dopo il disastro, emerse che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Inoltre, sempre per guadagnare tempo non fu concesso al cemento di consolidarsi adeguatamente: il lago fu riempito man mano che i lavori procedevano, tanto che, nelle ultime fasi di costruzione, i muratori lavorarono direttamente sulle barche.