Dalla centrale di Armisa (Cà Pizzini sulla cartina) si prosegue lungo una carrareccia sterrata che, con alcuni tornanti, porta alle case di Pattini 1275 m (poco prima, presso un tornante, si stacca sulla destra la deviazione per Forni 1296 m) e poi al margine inferiore dei prati di Foppi 1360 m c. (qui è possibile arrivare in auto se si dispone di un mezzo adeguato, meglio se 4x4). Per sentiero verso Sud, si traversano i prati raggiungendo e superando i nuclei di baite di Prataccio 1458 m e Michelini 1499 m. Il sentiero prosegue a mezza costa fra gli ontani e traversa, poco dopo, il grande vallone scendente dal versante Nord-ovest delle Cime del Druet. Poi prosegue, abbassandosi gradualmente, per avvicinarsi al fondovalle (rade segnalazioni rosso-blu per il Biv. Resnati e giallo-rosse per il Rif. Corti. Oggi tali indicazioni sono state rinfrescate con bandierine biancorosse). Si mette così piede nel vallone alluvionale dell'alta Val d'Arigna, lo Scimour, raggiungendo il primo dei tanti rami del torrente che lo percorre. Qui occorre fare particolare attenzione poiché per il Rif. Cort si deve deviare verso Ovest seguendo le segnalazioni della G.V.O. (Gran Via delle orobie). Abbandonando dunque, verso i 1600 m, la traccia per il Resnati, si deve traversare a destra e, fra ontani e prati coperti di ciottoli, percorrere una traccia che taglia in diagonale il vallone portandosi sul versante opposto fino ad una ripida parete rocciosa coperta di vegetazione (segnale al piede della parete) ove la traccia prende a salire ripida, con numerosi tornanti. Superato il salto roccioso si prosegue fra gli ontani lambendo un grosso masso con una targa gialla recante indicazioni del Sentiero Credaro. Poco dopo, infatti, il sentiero si biforca. Lasciando a destra la traccia verso Pioda ed il Rifugio Donati, prendiamo a sinistra (Sud) percorrendo un avvallamento pietroso fra le rocce della Quota 2091 m a sinistra e le rupi nord-orientali del Pizzo di Scotes. Raggiunta la sella erbosa in cima all'avvallamento, il tracciato procede in diagonale e poi traversa un ripido vallone per raggiungere il limite settentrionale degli affioramenti rocciosi levigati dall'azione dei ghiacci che costituiscono il cosiddetto "Dosso del Mercato" 2179 m (qui nel secolo scorso, si incontravano gli abitanti dei due versanti per scambi commerciali). Percorrendo il corridoio fra questi affioramenti e le pendici del Pizzo di Scotes, la traccia giunge ai piedi di uno sperone di rocce marce che risale con numerosi tornanti sfruttandone le cenge. Infine, in cima allo sperone, si porta al piccolo rifugio dedicato ad Alfredo Corti sul cui ingresso, una lapide ricorda il grande alpinista.
Volgiamo il nostro interesse alle ombrose Alpi Orobie, la lunga cresta di vette che per circa 60 chilometri costituisce lo spartiacque meridionale della Valtellina. Recentemente questa importante e poco nota catena montuosa è diventata un'area protetta con l'istituzione del Parco regionale delle Orobie Valtellinesi. Il Parco è gestito da un consorzio formato da 25 comuni il cui territorio si trova in toto o in parte a far parte del versante orobico della Valtellina. La speranza di tutti, politici, amministratori e popolazioni locali, è che la nuova istituzione possa essere fonte di reddito attraverso la valorizzazione del patrimonio naturalistico di queste montagne. In questo senso, alcune iniziative come quella dell'Oasi Eco-faunistica dell'Aprica stanno già dimostrando che la strada imboccata è quella giusta. Ogni giorno l'oasi è visitata da molti turisti con grande soddisfazione dei suoi responsabili e degli albergatori locali.
La meta che abbiamo scelto è situata nell'alta Val d'Arigna, forse la vallata più selvaggia di tutto il Parco. Dapprima stretta e incassata la valle si apre molto in alto, oltre Cà Pizzini. Lassù, fra verdi pascoli appare l'oscura catena di montagne che forma la cresta spartiacque con la bergamasca. Sono vette frastagliate e arditissime, le cui alte pareti sono rese ancor più impressionanti dal colore scuro delle rocce e dai selvaggi e profondissimi valloni che le incidono. Qui sorge, imponente, il Pizzo di Coca che, con i suoi 3050 m, è la più alta vetta orobica.
Il minuscolo Rifugio Alfredo Corti, non è gestito ed dotato di sei posti letto su cuccette e cucina a gas con stoviglie, sorge in uno degli angoli più solitari e selvaggi delle Alpi Orobie, in cima ad uno sperone roccioso, affacciato sulla Vedretta del Lupo. Non ha molta importanza come base d'appoggio alpinistica, ma sorge circa 800 metri a Nord-ovest del Passo di Coca 2625 m, unico facile passaggio verso il Rifugio Coca sul versante Bergamasco dell'alta Valbondione. Il sentiero d'accesso é (estate 1996) malamente segnalato e richiede esperienza e capacità oltre che buon allenamento essendo particolarmente faticoso. Le chiavi del rifugio sono da richiedersi alla Sezione del CAI Sondrio.
Alfredo Corti, scienziato e alpinista, è stato il maggiore esploratore dei monti valtellinesi e, sicuramente, anche il loro miglior descrittore. Nacque a Tresivio da Nina Menatti e dal medico condotto Linneo Corti il 24 luglio 1880 e morì a Roma il 7 luglio 1973. Laureatosi in Scienze naturali presso l'Università di Pavia fu chiamato ad insegare presso l'Istituto di Anatomia Comparata di Bologna e nel 1924, vinta la Cattedra di Anatomia Comparata della Facoltà di Scienze Naturali dell'Università di Torino si trasferì in quella città ove svolse la sua docenza fino al 1955.
Membro del Club Alpino dal 1898, iniziò precocemente una intensa opera di scoperta, studio e descrizione delle montagne valtellinesi che visitò non solo con gli occhi dell'alpinista, ma anche con quelli dello scienziato. Esemplare di questo particolare approccio alla montagna fu la scoperta di una nuova specie di mosca senz'ali che il Corti fece durante una scalata sul Pizzo Ventina e che in suo onore fu battezzata Alfredia acrobata.
L'attività esplorativa di questo grande alpinista spaziò dalle più importanti e celebri vette del massiccio del Bernina fino a gruppi meno conosciuti come i monti della Val Grosina e delle Alpi Orobie. Fautore di un alpinismo ancora legato alle origini e quindi poco propenso ai funambolismi e agli atletismi, Corti trovò nelle Alpi Orobie un terreno d'azione ideale. Per molti anni lo studioso valtellinese dedicò a questa negletta catena una particolare attenzione rendendosi protagonista di quasi tutte le più importanti ascensioni.
Impressionante è il suo curriculum di scalate che, in età più avanzata, lo videro protagonista di importanti imprese anche in altri gruppi montuosi delle Alpi. Inoltre appare quasi sconcertante la sua iperattività che lo impegnava nell'insegnamento universitario, nella ricerca scientifica, nella pratica dell'alpinismo e nella stesura di impareggiabili guide alpinistiche che, ancor oggi, sono una pietra miliare in questo genere di opere.
Nel 1909 con Walter Laeng dava alle stampe la Guida delle Alpi di Val Grosina; successivamente fu autore della parte dedicata al Massiccio del Bernina nella Guida delle Alpi Retiche (1911) e, infine, curò l'edizione della Guida delle Alpi Orobie.
Con dieci ghiacciai ufficialmente riconosciuti e osservati dal Servizio Glaciologico Lombardo, la Val d'Arigna è la più glacializzata delle valli del versante orobico valtellinese. Qui i ghiacciai sono una rilevante componente del paesaggio: l'elevato numero di individui presenti, le singolari caratteristiche di alcuni e la cospicua estensione e potenza di altri contribuiscono infatti a definire un ambiente suggestivo, severo e spettacolare, tipico di aree alpine poste a quote molto più elevate.
Uno degli apparati più belli e caratteristici, riconoscibile anche in lontananza, è il Ghiacciaio dei Marovin, o dei rododendri, posto ai piedi della parete Nord del Pizzo di Coca. Allungato in un ripido vallone, che lo protegge dall'irraggiamento solare e lo alimenta attraverso numerosi canali e colatoi, è tra i ghiacciai lombardi quello che raggiunge la quota più bassa: solo 2.025 metri! Ma al culmine della Piccola Età Glaciale (prima metà del XIX secolo) esso toccava i 1.800 metri di quota!
Poco più a Ovest troviamo il Ghiacciaio del Lupo, il più esteso della valle e uno dei più grandi delle Orobie; su di esso si affaccia il Rifugio Corti. Il Lupo è uno dei pochi apparati orobici che si avvale di una significativa alimentazione nevosa di origine diretta, pur se i recenti studi hanno evidenziato che anche le valanghe svolgono un ruolo importante nell'equilibrio della massa ghiacciata.
Tra questi due "giganti" troviamo due apparati piccolissimi: Dente di Coca e Costa d'Arigna. Il primo è un piccolo ghiacciaio alimentato da valanghe, che l'elegante cerchia morenica della Piccola Età Glaciale, come in una sorta di abbraccio, contribuisce a trattenere all'interno del circo glaciale.
Ben più grande, anche se abbondantemente nascosto dal detrito morenico, è il Ghiacciaio di Pizzo Scotes, posto ai piedi della parete orientale dell'omonima cima.
Sempre lungo il versante sinistro della valle, e sempre alle falde del Pizzo di Scotes, sono presenti i ghiacciai di Pioda Superiore e Pioda Inferiore, di superficie e aspetto oggi assai simili. Derivanti dalla divisione, verso la fine del '40, del grande Ghiacciaio di Pioda.
Pur se oggi pare inverosimile, osservandone il concavo profilo, anche il Ghiacciaio del Druet, o Vagh, sul versante opposto della valle, era in passato caratterizzato dalla presenza di seracchi, indice di notevole potenza. Nel 1889 Antonio Cederna li definì schiera di guglie cristalline", che in un tratto interessavano tutta la larghezza" del ghiacciaio. Racchiuso tra i poderosi crestoni settentrionali della Cima occidentale di Cagamei e del Druet, è un ghiacciaio di discrete dimensioni. Di esso, come del vicino Ghiacciaio delle Fascere, colpiscono le eleganti e potenti morene laterali ricordo della Piccola Età Glaciale, e prova delle dimensioni dei due apparati nel secolo scorso.
Infine, tra i ghiacciai delle Fascere e dei Marovin, è presente il piccolo glacionevato di Val Sena, situato nell'angusto circo sommitale dell'omonima valle.
Quasi nulla rimane, oggi, dei tre ghiacciai che si annidavano alle falde del gruppo di Rodes, in corrispondenza del tratto terminale del poderoso contrafforte che si stacca verso Nord dalla catena principale. Scomparso è il Ghiacciaio del Pizzo Rodes analogamente ai vicini ghiacciai di Val Bocardi e di Val Freggia, collocati alla testata degli omonimi bacini.
Nelle limitrofe valli Malgina, d'Arigna e di Scais si trovano due interessanti endemismi floristici scoperti nel secolo scorso dal medico e appassionato botanico Filippo Massara.
Delle due specie la Viola comollia è la più rara, ma anche quella esteticamente più bella. Fiorisce in piccoli gruppi, sparsi sulle pietraie ed i terreni morenici dell'alta cerchia orobica. Il suo areale di diffusione è limitato alle valli del bacino Venina-Scais, alla Val d'Arigna e alle zone più elevate dei bacini del Barbellino, sul versante bergamasco, e di Venina. Fu scoperta dal Massara nel luglio del 1832 e da lui dedicata all'amico Giuseppe Comolli, docente di economia rurale all'Università di Pavia.
Assai più comune é la Sanguisorba dodecandra che, quasi come un erba infestante, cresce rigogliosa nelle valli d'Arigna e in quelle del bacino Venina-Scais. In queste valli era considerata dai contadini una preziosa integrazione al foraggio in quanto conferiva particolari caratteristiche organolettiche ai prodotti caseari.
Giuseppe Filippo Massara, autore delle due importanti scoperte nacque a Pavia fra il 1792-1973. Dal 1821 si trasferì con la famiglia a Montagna in Valtellina in qualità di medico condotto. Qui, oltre a svolgere la sua professione, ebbe modo di dedicarsi appassionatamente allo studio della flora locale, studio che sfociò nella pubblicazione del primo, e finora unico, elenco delle piante valtellinesi. Studioso scrupoloso e pignolo, il Massara era tuttavia una persona estremamente modesta e di animo generoso. Sottopose sempre i risultati delle sue ricerche a numerosi eminenti botanici onde avere conferma delle sue teorie. In particolare si rivolse spesso al Comolli, e al professor Giuseppe Moretti, docente di botanica presso l'Università di Pavia.
Purtroppo, come testimonia l'episodio sotto narrato, l'altruismo e la modestia del medico condotto non furono sempre premiati. Sùbito dopo la scoperta della Sanguisorba, Filippo Massara si stava accingendo a pubblicare uno scritto in merito alla nuova specie, con l'intenzione di chiamarla Sanguisorba vallistellinae, quando si vide preceduto dal professor Giuseppe Moretti che denominava la specie Sanguisorba dodecandra (con dodici stami) con buona pace del diritto di precedenza. Nonostante questo brutto episodio il Massara, che, a ragione, avrebbe potuto far valere i suoi diritti, mantenne la nuova denominazione inserendola nel suo "Prodromo della Flora Valtellinese". Tuttavia non mancò di far notare come, spesso, egli avesse constatato che il numero degli stami non fosse sempre di dodici, ma anche di sei o otto.