Dal tornante sottostante le prime case di Ciappanico si sale una scaletta che porta a lambire una cappelletta; al termine dei gradini ci si trova sulla mulattiera che entra in Val Torreggio.
Con piacevole camminata sulla larga massicciata ottenuta giustapponendo enormi lastroni di serpentino si procede in leggera salita e, dopo pochi minuti, si giunge in vista delle case di Ciappanico vecchia. Il borgo è, infatti, diviso in due nuclei tradizionalmente identificati in base all'età dell'insediamento. La mulattiera passa a valle delle case, sfila davanti alla chiesetta ed esce dal paese proseguendo ancora in buono stato e su terreno sempre più aperto. Sulla sinistra, intanto, acquista importanza il desolato quadro offerto dal grande smottamento verificatosi nell'estate del 1987.
Risaliamo questo settore sconvolto più che dalla frana dai successivi lavori di sistemazione che hanno coinvolto anche il versante su cui camminiamo. Qua e là lungo il percorso notiamo punti di misurazione destinati a valutare eventuali nuovi spostamenti della massa franosa. Oltre la zona detritica raggiungiamo un bel nucleo di baite perfettamente inserito fra i grandi blocchi di pietra che lo circondano. Una serie di tornantini attacca ora una dorsale secondaria facendoci prendere quota fino a sbucare su un panoramico e aperto poggio erboso. Il sentiero tira dritto nel prato ombreggiato da poche piante e punta al vicino grappolo di case dell'Alpe Son. L'abitato sorge con le case fittamente addossate, separate da stretti vicoli e da quasi l'impressione di una piccola fortezza. Ad accentuare questa sensazione è la casa più a valle che presenta una facciata tondeggiante sul cui muro a secco sono state inserite grosse pietre di bianca quarzite quasi a segnalare l'importanza dell'edificio e a diversificarlo da quelli vicini. Una fresca fontana concede refrigerio; poi si riprende lambendo le case e uscendo dal nucleo. Poco dopo, superato un recinto di pietre, si trova una biforcazione. A sinistra si procede verso Pra Piasci e il Rifugio Cometti, a destra si continua verso la Bosio. In questo tratto il sentiero si perde un po' fra i prati, ma è sempre visibile. Ci si tiene una ventina di metri a valle del crocifisso che sorge a monte di Son, si traversa una zona di cespugli infestanti e spinosi e si giunge ad una pianta sul cui tronco si trova un cartello indicatore. Ci troviamo una trentina di metri più in basso di tre baite con fontana. Procediamo ancora diritti lungo la traccia fra prato e cespugli finché, improvvisamente ci immettiamo su una sorta di tratturo nato quasi dal nulla. Si sale faticosamente arrivando ad un casello per la presa dell'acqua dove sembra di perdere la traccia. Invece il tratturo riprende a sinistra del manufatto e, con lunga, faticosa diagonale senza tornanti, arriva al margine dei prati dell'Alpe Acquabianca. Giunti presso le prime baite si sale verso destra rimontando il pascolo per giungere in vista di due grandi croci lignee. La prima si trova su un grosso masso che si lambisce a valle per aggirarlo sulla sinistra; sempre fra l'erba si rimonta una traccia in parte occupata da un ruscelletto e, dopo una breve salita, si devia a sinistra rientrando nel bosco. Ora il sentiero ritorna a farsi marcato e, dopo un altro lungo diagonale, riprende a salire a zig zag nel bosco intervallato da qualche radura. Si prende ora un saneiro che sale verso destra e dopo un ventinaio di metri di dislivello interceta una sterrata proveniente dall'Alpe Lago
Ora ci troviamo su un percorso visibilmente molto battuto e non occorre più prestare attenzione. Inizia un lunghissimo tratto semi pianeggiante, dapprima ancora nel fitto bosco e, poi, tra vegetazione d'alto fusto più rada.
Il sentiero taglia un costone ove le piante recano i segni di un recente incendio e passa poco a monte degli alpeggi di Serra e Palù. Sullo sfondo s'impone sempre di più la rossa architettura rocciosa dei Corni Bruciati. Lasciate le ultime piante si giunge al grosso agglomerato di baite che costituiscono l'Alpe di Airale da cui prendono nome anche le due dentellate punte rocciose in alto sulla destra. Il sentiero s'abbassa, ora, per pochi metri e serpeggiando fra i blocchi lambisce il tranquillo torrente che solca la piana erbosa. Sulla sinistra, già visibile su un'emergenza coperta da radi larici, si vede l'edificio del Rifugio Carlo Bosio che si raggiunge traversando le acque su un ponticello di legno.
In questi ultimi cent'anni abbiamo assistito ad un progressivo e inarrestabile cambio d'uso del territorio montano. Si è passati da una colonizzazione piuttosto elevata, che sfruttava ogni spazio disponibile per l'agricoltura e l'allevamento, ad un abbandono che è diventato quasi totale nelle zone meno accessibili.
Fino a non moltissimi anni or sono i maggenghi erano collegati da una fitta rete di sentieri ben tenuti, che consentiva - fra l'altro - una capillare manutenzione del territorio. La fuga verso la città degli alpigiani e lo spopolamento dei luoghi sono proseguiti per molti anni e solo da poco sembrano essersi arrestati. Nel contempo la montagna ha visto un progressivo aumento delle frequentazioni da parte di turisti appassionati dell'escursionismo e del trekking. Quindi, se da un lato si è persa buona parte della fitta rete di sentieri d'un tempo, dall'altro c'è stato un recupero parziale di tale viabilità per altri scopi. Contestualmente si è anche ridisegnata la mappa sentieristica che oggi, s'impernia più su valenze paesaggistiche e turistiche che su quelle legate all'economia locale. Molti tracciati sono rimasti quelli di un tempo ma hanno, a volte, cambiato il luogo di partenza e la meta finale che, invece dell'alpeggio, oggi è spesso un rifugio. Anche le strade costruite in epoca recente hanno contribuito, non poco, a mutare questa geografia che, originariamente, aveva nei paesi il suo centro irradiante.
Per chi fosse interessato ad andare a scoprire come un sentiero si trasforma nel tempo abbiamo pensato di proporre una gita lungo la vecchia e gloriosa mulattiera della Val Torreggio, in Val Malenco. Il percorso è un vero campionario di testimonianze dove si sovrappongono gli effetti prodotti da calamità idro-geologiche, dall'abbandono della montagna, dalla nascita di più comodi punti di partenza verso la meta finale, dalla realizzazione di piccole opere ad uso locale, dalla mancanza di segnaletica e di manutenzione.
Eppure la mulattiera della Val Torreggio riserva, nella sua parte inferiore oggi praticamente dimenticata, alcuni aspetti di notevole interesse sia paesaggistico, sia etnografico.
Il percorso è sempre ben visibile anche se, a volte, richiede qualche attenzione per individuarlo; non presenta difficoltà e termina in uno dei luoghi più ameni delle montagne valtellinesi: la piana dove sorge il Rifugio Carlo Bosio.
Perowskite, Artinite, nomi apparentemente astrusi ed esotici, senza significato per i comuni mortali. ma che, ad un ricercatore di minerali, evocano subito immagini di magnifici cristalli e di bianche formazioni delicatissime. Minerali, inoltre, molto rari fattore questo che ne ha notevolmete incrementato la fama fra i collezionisti. Proprio lungo il nostro percorso, poco sopra Ciappanico, sulle pietraie franate dalle rossastre pareti della Rocca Castellaccio, si trova una delle pochissime località italiane dove i due minerali possono essere rinvenuti. Sono miracoli che ci regalano i monti della Val Malenco, fra i più ricchi al mondo per varietà mineralogiche.
La Perowskite si presenta generalmente in forma di cristalli cubici con colore variabile dal bruno scuro al giallo miele; l'Artinite appare in delicati cuscinetti globulari di un bianco purissimo formati da migliaia di esilissimi aghetti prismatici.
Il rinvenimento delle due rarità in una zona tanto delimitata è dovuto alla passione e alla caparbietà di uno dei più celebri collezionisti valtellinesi, il Prof. Fulvio Grazioli.
Benché già segnalata in Val Malenco, la Perowskite era stata rinvenuta in una sola zona della valle e, per di più, in pochissimi esemplari. Si trattava, comunque, del primo rinvenimento in Italia. Sicuro che nella metamorfiche della Val Torreggio dovessero esserci altri giacimenti, nel 1954, Grazioli rivolse le sue attenzioni ai ghiaioni di Rocca Castellaccio riuscendo ad individuare una zona ricca del minerale.
Pochi anni dopo, nelle vicinanze, il professore sondriese rinvenne vaghe tracce di Artinite ai piedi di un valloncello. Mosso dalla curiosità s'avventurò nel canalino detritico da cui sembrava fossero caduti i pezzi e, dopo breve ricerca, trovò un ricchissimo giacimento del minerale da cui trasse esemplari meravigliosi.
Nel corso degli anni, a seguito delle numerose frequentazioni di appassionati ricercatori, Perowskite e Artinite sono diventate sempre più rare nella zona. Tuttavia val sempre la pena di dare un'occhiata. Un movimento franoso, una slavinetta invernale, l'erosione di un ruscello possono riportare alla luce ciò che, poco prima, era celato. Nella zona si trovano anche esemplari di granato nero Melanite, Aragonite, Diopside, Idromagnesite, Ilmenite, Magnetite, Olivina, Titanite, Titanclinohumite e Vesuvianite.