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Passeggiate - Un angolo poco noto della Val Grosina

 
  1. Scheda
 
  • Zona: Alta Valtellina-Val Grosina
  • Tipo: Passeggiata
  • Sigla: A52
  • Periodo consigliato: da giungo ad ottobre
  • Punto di partenza: Ponte Grande sulla strada della Val Grosina fra Fusino ed Eita. Fusino si raggiunge percorrendo la SS38 dello Stelvio fino a Grosio (159 km da Milano e 79 dall'imbocco della SS38 al Trivio di Fuentes). Dal paese si imbocca, sulla sinistra, la strada per Ravoledo e la Val Grosina. Seguendo le indicazioni si giunge così a Fusino (9 km da Grosio). Si prosegue, ora, per altri due chilometri circa, fino al ponte con cui la strada si porta sul versante opposto della valle.
  • Tempo di percorrenza: 2 ore di cammino su tracciato quasi pianeggiante; il percorso è completamente ciclabile, tranne un tratto di pochi metri dove manca un ponticello per attraversare un torrente (rilevazione del 25 maggio 2002).
  • Dislivello: 450 m
  • Difficoltà: T (Turistica)
  • Bibliografia: Canetta N. "Grosio e Grosotto e le loro montagne" - Guida edita dal Comune di Grosio - 1987; Armelloni R. "Alpi Retiche" - Collana Guida dei Monti d'Italia, Ediz. CAI-TCI - Milano 1997.
  • Cartografia: CNS 1:50.000 n. 269 «Passo del Bernina»; Carta Escursionistica Kompass 1:50.000 " n. 96 «Bormio-Livigno-Corna di Campo».
  • Informazioni locali: Municipio di Grosio - Tel. 0342.708511 - FAX. 0342.708530
 


 
mappa di Un angolo poco noto della Val Grosina
  1. Percorso
 

Percorso

Lasciata l'auto nel grande piazzale che si trova presso il ponte che traversa il Roasco (Punt Grand), ci si incammina su una sterrata che, sul versante sinistro orografico, sale dolcemente, allontanandosi dalla verdeggiante spianata di fondovalle.

Un'occhiata ai dintorni ci permette di scorgere innumerevoli piccoli nuclei rurali, ora formati da un pugno di case, ora da un solo grande edificio. Tutt'attorno ad essi i prati sono sfalciati e ben tenuti, segno della costante presenza dell'uomo.

Con lenta salita ci avviciniamo sempre più al limite del bosco andando ad incrociare un'altra mulattiera che, da sinistra, proviene da Fusino. Siamo alle porte del piccolo agglomerato di Piatta di sotto. Una vista alle antiche abitazioni è d'obbligo.
Da Piatta di sotto la mulattiera sale un poco raggiungendo le baite di Piatta di sopra da dove un'altra salita porta in cima ad un ciglione roccioso. Sotto i nostri piedi la valle si restringe in una gola scavata dalle impetuose e spumeggianti acque del Roasco. In questo tratto è venuto a mancare (giugno 2002) un ponticello che permetteva l'attraversamento del primo importante corso d'acqua scendente da destra. Non ci sono, tuttavia, problemi: basta un po' d'attenzione e il guado, facilitato da qualche pietra affiorante, è presto fatto. Poco dopo si passa in una sorta di corridoio fra l'abetaia, sulla sinistra, e basse pareti rocciose a destra. Il bosco diventa man mano più fitto ed imponente. La stradicciola che stiamo percorrendo si allarga sempre più mentre inizia a percorrere, in alto, la verdeggiante conca di Pugnal e Veradura le cui abitazioni sorgono sparse e numerose nel fondovalle. Sulla sinistra, intanto, si è aperto l'imbocco dell'importante Val d'Avedo, pure costellato da nuclei di baite e casolari.

Le dimore rurali della valle possono essere distinte in due categorie: i casolari monofamigliari e le micro aziende che raggruppano due-quattro famiglie formando un minuscolo agglomerato.

Nel primo caso l'edifico si presenta in forma allungata. A piano terreno si trovano il locale stalla e la cucina con focolare privo di canna fumaria. Al piano superiore si trovano, invece, il fienile e la stanza da letto che, spesso, serve anche come deposito di granaglie e patate.

Nei gruppi di baite plurifamigliari, i fienili sono quasi sempre staccati dalla stalla-abitazione. Nei pressi sorgono poi il "casaröl", costruzione in pietra e legno per la stagionatura del formaggio, la "trela", casello per la conservazione del latte e il "trelat", edificio analogo ma ad uso dispensa-cantina. Queste ultime due costruzioni sono in genere interrate e coperte di piode o pietroni. A differenza del "trelat", la "trela" sorge su un ruscello o nei suoi pressi in modo da sfruttare l'azione rinfrescante dell'acqua corrente.

Traversando altri piccoli ruscelli, si prosegue su strada sempre più agevole e larga che s'innalza dolcemente avvicinandosi al gradino d'escavazione glaciale su cui sorge Eita. Immettendosi da ultimo su un tratto asfaltato si sale ancora un poco e poi ci si abbassa leggermente entrando nel vasto pianoro dove sorgono le sparse abitazioni della località. Sul ciglio del terrazzo glaciale svetta il piccolo campanile in pietra della chiesa della "Madonna d'Eita", dedicata all'Immacolata ed eretta nel 1887. Presso la chiesa sorge la casa della fabbriceria che servì agli operai come ricovero durante la costruzione dell'edificio. Ora la casa è trasformata in rifugio privato che nei giorni festivi e d'estate fornisce ristoro anche ai numerosi turisti. Sulla balaustra che cinge il piazzale della chiesa sorge una piccola colonnina marmorea che ricorda la figura dell'esploratore e alpinista Giorgio Sinigaglia.

La vasta piana di Eita, chiusa a Nord da imponenti montagne fra cui spicca il Sasso Maurigno con la sua alta parete rocciosa divisa da una rampa diagonale, segna un momento di grande spazialità e di respiro. Eita era un punto di passaggio e stazione di sosta per le carovane e i pellegrini che, nel Medio Evo, dalla Valtellina volevano recarsi in Svizzera, in Tirolo, in Germania e viceversa. Quest'importante via di comunicazione, che permetteva di evitare il passaggio nel Bormiese mediante un percorso rettilineo che da Grosio, attraverso il Passo di Verva, scendeva in Valdidentro e proseguiva alla volta di Livigno, perse successivamente importanza fino ad essere abbandonata. Da Eita, infatti, la strada che ha sostituito l'antica mulattiera, prosegue sterrata e più disagevole, superando un altro gradino glaciale sul quale, sorge il piccolo rifugio Falck, non gestito. La carrareccia continua poi in ambiente desolato e selvaggio fino al Passo di Verva 2301 m, per poi scendere verso Arnoga.
La nostra gita si conclude ad Eita. Per il ritorno dobbiamo imboccare per pochi metri la carrozzabile asfaltata che proviene da Fusino e che tiene il versante destro orografico della valle. La si abbandona immediatamente per scendere a sinistra su un tratturo che, dopo un tornante, si porta sul pendio sottostante la chiesa di Eita e, lambita una baita, termina su un dosso. Da qui si scende sui ripidi prati tendendo a sinistra ed evitando con cura di traversare la prateria per non danneggiarla. Mantenendosi ai limiti superiori del prato e costeggiando alcune roccette affioranti, si scende verso sinistra arrivando in breve di fronte al rombante e fantastico salto della cascata della "Pirla". La cascata salta per circa 200 metri, incassata in una stretta gola rocciosa, spumeggiando in un pulviscolo finissimo di rinfrescanti goccioline.

Raggiunta la sottostante baita si piega a destra immettendosi ben presto in un altro tratturo che, attraverso magnifici prati, riporta alla strada asfaltata che scende a Fusino. Per essa si torna alla macchina.

  1. Approfondimento
 

La dimora tipica

L'uso del legno come elemento costruttivo della tipica dimora locale è dominante. Le baite hanno pareti formate da tronchi trasversali sovrapposti e legati agli angoli con un incastro a block-bau tipico delle costruzioni alpine di stile walser, ma di ancor più remote origini. Probabilmente un "rivolo" di questa popolazione giunse fin qui da Nord, durante la grande migrazione che nel Medio Evo vide i Walser spostarsi lungo l'arco alpino verso oriente, alla ricerca di nuove aree colonizzabili.

Di solito le case hanno un basamento in pietra, la cui funzione è principalmente quella di isolare dall'umidità del terreno le pareti superiori fatte con grosse travi. La scelta del legno come materiale edile preferenziale non è casuale: è facile da lavorare, ha un elevato coefficiente di coibentazione, è facilmente reperibile in natura. Si pensi che una parete con travi spesse 10-12 centimetri, offre lo stesso isolamento termico pari a quello ottenibile con spessori di muratura di 60 centimetri. Generalmente sono stati usati legnami di conifere come l'abete e il larice. Quest'ultimo ha eccellenti qualità meccaniche, ma richiede una stagionatura rigorosa ed è facilmente aggredibile dai tarli e da alti parassiti animali e vegetali. Per questo si sono adottate alcune soluzioni protettive, prima fra tutte quella dell'affumicamento delle travi.

Oggi i tetti delle costruzioni sono tutti ricoperti con lamiere o, nel migliore dei casi, da tegole ricavate da pietra locale. In origine la copertura era invece fatta con tegole ricavate da sottili tavolette di larice note come "scandole".

Un tempo gli abitanti di Grosio, Grosotto e Ravoledo usavano entrare in valle verso San Giuseppe per uscirne solo a gennaio.
Oggi, quelli che una volta erano maggenghi sono usati invece come alpeggi, con uno stanziamento che va da giugno a settembre. Solo nei nuclei più a bassa quota si conserva ancora la stagionalità originale.

Montagne neglette

I monti di Val Grosina sono di sicuro una delle zone meno note e frequentate delle Alpi Retiche. Forse il turista li snobba un po' perché non ci sono molte vette importanti e perché mancano buoni punti d'appoggio ove sostare e pernottare.
Più probabilmente la ragione di questa bassa affluenza turistica è legata alla mancanza o quasi di fonti bibliografiche facilmente reperibili. Eppure in passato le valli grosine ebbero il loro momento di celebrità. Le prime esplorazioni alpinistiche spettano ai soliti inglesi, ma subito dopo questa fase, sul finire dell'800, furono alcuni italiani a dare nuovo impulso alla conoscenza della catena Cima Viola - Cima di Piazzi e quindi anche della Val Grosina. Nel 1875 il dottor Bartolomeo Sassella di Grosio, singolare figura di alpinista schivo e solitario, mise piede per primo sulla Cima Viola, imponente vetta che raggiunge i 3374 m. Negli anni successivi altri pionieri si cimentarono nella regione. Nel 1876 il geografo Damiano Marinelli che con Battista Pedranzini e Alfonso Holzkneckt compì la prima salita italiana alla Cima di Piazzi. Nel 1879 Antonio Cederna, Enrico Ghisi e la Guida Krapacher raggiungevano per primi la vetta del Monte Cassa del Ferro.
Ma la figura di maggior spicco è quella Giorgio Sinigaglia di Milano, che s'impegnò in molte campagne esplorative lasciandone anche una prima ma purtroppo incompiuta relazione.
Negli anni a cavallo fra il 1908 e il 1912 si concentra nella regione una notevole attività condotta dagli alpinisti del GLASG (Gruppo Lombardo Alpinisti senza Guide) di cui erano membri importanti elementi come Paolo Ferrario, Guido Silvestri, Alfredo Corti e Walter Laeng. Proprio Corti e Laeng, nel 1909, pubblicarono la guida "Alpi di Val Grosina" uno dei primi contributi alla Collana Guida dei Monti d'Italia. Da quell'anno nulla o quasi è più stato scritto; per trovare qualcosa di utile e aggiornato per il turista dovremo attendere il lavoro di Nemo Canetta citato nella bibliografia della scheda. Studioso di vasta cultura e grande appassionato di questi monti, il Canetta ha saputo fornire uno strumento estremamente valido a chi volesse approfondire la loro conoscenza. In più, prevedendo con grande anticipo il boom dell'escursionismo, diede al suo lavoro un impronta decisamente orientata in quel senso. Anche se nel suo libro non tralasciò l'alpinismo, Canetta si concentrò maggiormente sulle escursioni e sugli attrattive naturalistiche ed etnografiche della Val Grosina. La sua opera, sebbene non facile da reperirsi, resta in questo senso un caposaldo che mantiene la sua validità anche a distanza di anni.
La gita che vi proponiamo non è particolarmente faticosa e vi permetterà di conoscere da vicino i tipici insediamenti alpestri della valle attraversando ambienti diversi, fra prati smeraldini e ben tenuti, fitte abetaie, ruscelli e cascate spumeggianti. Entreremo in un mondo poco conosciuto, ma assai prezioso, dove uomo e natura vivono un secolare equilibrio, rimasto praticamente immutato anche con l'avanzare del progresso e della tecnologia, elementi sfruttati ad arte dagli alpigiani senza danneggiare il paesaggio.